Giuseppe Verdi è sicuramente il compositore italiano più popolare e molte delle sue opere non sono mai uscite dal repertorio, diventando oggetto di un vero “culto”. Un luogo comune, non privo di fondamento, associa il nome di Verdi al Risorgimento, tuttavia egli è soprattutto un uomo di teatro che dimostra una prodigiosa abilità a cogliere lo spirito del tempo, e quello risorgimentale è solo un aspetto della sua produzione. A partire dagli anni Quaranta la figura di Verdi domina il secolo, attraversando anni di grandi cambiamenti politici e culturali e riuscendo ad adattarsi con grande versatilità, o ad anticipare le novità con abilità da camaleonte.
Gli esordi di Verdi
Le sue 28 opere sono in maggioranza drammatiche. L’epoca che vede la nascita di Verdi come compositore è più interessata alla tragedia che alla commedia; ma la divisione tra i due generi del melodramma sta per cadere: le opere di Verdi contengono allo stesso tempo elementi comici e drammatici, tragici e grotteschi, secondo l’estetica romantica e in particolare l’esempio dei drammi del commediografo francese Victor Hugo, che teorizza tale fusione sul modello del teatro di Shakespeare, grande riscoperta del romanticismo europeo.
I primi grandi successi favoriscono la nascita del mito di Verdi patriota. Opere quali Nabucodonosor poi Nabucco (1842), I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843; poi rifatta come Jérusalem per l’Opéra di Parigi il 26 novembre 1847), entrambe su libretto di Temistocle Solera, legano per sempre il nome di Verdi alle istanze risorgimentali. In esse trova eco, mediato dalle vicende di popoli oppressi, il desiderio di libertà degli Italiani, cui danno voce due celebri pagine musicali, i cori “Va pensiero, sull’ali dorate” in Nabucco, e “O Signore, dal tetto natio” nel quarto atto dei Lombardi. Secondo un aneddoto molto diffuso nella mitologia risorgimentale, con la scritta VIVA VERDI gli Italiani avrebbero inneggiato a Vittorio Emanuele re d’Italia; ciò testimonia come nella figura del compositore, e in alcune delle sue opere più popolari, si siano coagulate le aspettative più forti del tempo.
Il filone risorgimentale è dunque in linea con il modello operistico che viene dalla Francia e anche con il clima culturale italiano, che è a favore di un’arte “utile”, dal forte impegno sociale.
Per alcuni anni Verdi insiste sul filone “nazional-popolare” con Giovanna d’Arco (1845), Attila (1846), e infine con La battaglia di Legnano (1849). Quest’ultima, commissionata dalla Repubblica romana, ha più di tutte un chiaro intento propagandistico, e segna l’abbandono del modello risorgimentale.
Verdi rivolge adesso la sua attenzione a un altro modello, che proviene dalla tradizione italiana, ed è quello del dramma romantico, nella duplice incarnazione datagli da Bellini e Donizetti. Da Bellini Verdi eredita l’attenzione al soggetto, al testo; da Donizetti l’attenzione agli aspetti drammaturgici, la tecnica del “colpo di scena” che ribalta la situazione preesistente, l’attenzione ai personaggi minori, e soprattutto il triangolo vocale composto da soprano, tenore, baritono.
Primo esempio di dramma romantico è Ernani (1844) tratto dal dramma omonimo di Hugo, che al suo apparire nel 1830 era diventato una specie di manifesto del romanticismo. Pur essendo formalmente un’opera piuttosto tradizionale, in Ernani Verdi approfondisce la sua capacità di scolpire i personaggi.
Un’altra tappa importante del suo cammino è il Macbeth, (1847), il primo approccio verdiano alla tragedia shakespeariana. Per la prima volta Verdi pretende di controllare ogni aspetto della messinscena oltre all’esecuzione dei cantanti, che sottopone a prove stressanti.
Verdi fino al 1860
L’evento cruciale degli anni Cinquanta è però la nascita della cosiddetta trilogia popolare: Rigoletto (1851), Il trovatore (1853), La traviata (1853). Si tratta di tre capolavori, ognuno dei quali presenta caratteristiche spiccate: La traviata – che suscita scandalo per l’ambientazione contemporanea e per la professione della protagonista, una cortigiana – è uno dei più penetranti ritratti di donna del melodramma fino a Puccini. Per la prima volta in un’opera italiana è presente l’attenzione al cosiddetto “colore locale”, vale a dire il tentativo di raffigurare attraverso la musica i luoghi in cui si svolge la vicenda. Il colore della Traviata è dato dal ritmo del valzer, che attraversa l’opera a partire dal primo atto.
Il trovatore, da una tragedia dello spagnolo Antonio García Gutiérrez, è l’opera formalmente meno innovativa delle tre e forse meno raffinata, ma è ricchissima di melodie che le hanno assicurato una popolarità intramontabile. L’abilità verdiana nella tecnica del “colpo di scena” raggiunge il suo culmine nel primo atto, all’apparizione del Trovatore, nel terzo alla notizia della cattura di Azucena, che dà luogo alla famosa cabaletta “Di quella pira”, e soprattutto nel finale quando Azucena rivela al Conte di Luna che Manrico, appena giustiziato, era suo fratello.
Rigoletto è la prima opera della trilogia ed è ritenuta dallo stesso Verdi la migliore. Nella tragedia Le roi s’amuse di Hugo, Verdi trova finalmente quello che desidera, vale a dire un personaggio forte e un nucleo tematico individuato con chiarezza, quello della maledizione invocata da Monterone sul capo di Rigoletto, che attraverso una frase musicale aleggia cupamente su tutto il dramma. Rigoletto è un personaggio memorabile e diviso tra l’amore appassionato per la figlia Gilda e il disprezzo, l’odio per i signori che deve servire, che sfocia nell’aria “Cortigiani, vil razza dannata”, un’aria dall’impianto molto libero, composta da più sezioni in tonalità diverse.
Con il successo della trilogia, Verdi conquista una solida posizione che gli permette di abbandonare i serrati ritmi di produzione finora seguiti, e preoccuparsi di conquistare il mercato straniero. Il suo successivo capolavoro Un ballo in maschera (1859) nasce però in Italia, superando con fatica le maglie della censura. Di tutte le opere verdiane, Un ballo in maschera è quella che illustra con più forza il tema della passione amorosa.
Dopo l’unità: mutamento del mondo teatrale
Il 1860 rappresenta una svolta importantissima nella storia italiana: le lotte risorgimentali per l’unificazione del Paese hanno raggiunto il loro scopo, nel marzo 1861 viene finalmente proclamato il Regno d’Italia, sotto la guida dei Savoia, e nel 1871 Roma diventa capitale.
Nel corso dell’Ottocento, i rivolgimenti politici non mancano d’influenzare la vita teatrale, nei modi più svariati: nel 1848 e negli anni immediatamente successivi il numero delle rappresentazioni subisce una drastica caduta e la censura, politica e religiosa, si inasprisce, influendo pesantemente sulla scelta dei soggetti. Sono notissime le peripezie di Verdi alle prese con una censura ottusa.
Le trasformazioni politiche mutano il volto dell’Italia, ma nel 1860 anche il mondo teatrale è profondamente cambiato. Mentre nella prima metà del secolo ogni cittadina ha la sua stagione d’opera e può permettersi di avere i migliori cantanti e, sostanzialmente, gli stessi spettacoli delle città maggiori, alla fine degli anni Quaranta si creano due diversi circuiti operistici, uno di livello maggiore (le grandi città) e uno di livello più scadente (la provincia). Al centro del primo sta Milano, che ospita non solo il Teatro alla Scala, ma anche i maggiori editori, Ricordi in testa, oltre alle principali riviste specializzate, come la “Gazzetta musicale” di Milano di proprietà dello stesso Ricordi e, alcuni anni più tardi “Il teatro illustrato” dell’editore Sonzogno.
Un’altra caratteristica importante è la creazione del repertorio, ossia un gruppo stabile di opere che vengono rappresentate frequentemente. Anche in questo caso gli interessi dell’editoria giocano un ruolo importante, perché le partiture circolano stampate e non più, come all’inizio dell’Ottocento, manoscritte, e quindi gli editori hanno interesse a imporre quelle da loro pubblicate. Inoltre in questi anni, il ruolo dell’autore ottiene un grande riconoscimento con la prima legislazione sul diritto d’autore (1865).
Verdi è implicato attivamente nel cambiamento del mondo teatrale: come deputato al neonato Parlamento italiano, egli si occupa, dal 1861, della legislazione sul diritto d’autore. La proprietà editoriale delle sue opere, il legame con l’editore Ricordi e il controllo totale su ogni aspetto della messinscena ne fanno un compositore completamente diverso dai suoi predecessori, in grado di contrattare alla pari con gli impresari e d’imporre la sua volontà ai librettisti e agli artisti.
Il Requiem per Manzoni
Il progetto per il requiem più noto di tutto l’Ottocento nasce di slancio alla notizia della morte del grande scrittore, che Verdi adora. Manzoni muore il 22 maggio 1873: la prima esecuzione del Requiem, diretta dallo stesso Verdi, ha luogo esattamente un anno dopo nella chiesa di San Marco a Milano, stracolma di gente. È un enorme successo; vengono date subito tre repliche alla Scala e si organizza una vera e propria tournée. Pur senza dubitare del genuino desiderio di Verdi di scrivere una musica veramente “religiosa”, si deve riconoscere che il suo Requiem non è libero da effetti teatrali (ad esempio l’inizio del Dies irae): ma la teatralità è insita nella cifra stilistica di Verdi, ed è inevitabile che egli, laico testardo, concepisca la rappresentazione dell’uomo dinanzi alla morte come un dramma, come una lotta con un destino oscuro e ineluttabile.
Verdi dopo il 1860
A partire dall’unità d’Italia, a contrastare l’avanzata dello “straniero” resta in pratica il solo Verdi, poiché nessuno dei compositori dell’epoca riesce a esprimere una spiccata personalità.
Attirato, come tutti gli operisti italiani del secolo, dallo scintillio dell’Opéra, scrive per Parigi I vespri siciliani (Opéra, 13 giugno 1855), Don Carlos (Opéra, 11 marzo 1867) e per San Pietroburgo La forza del destino (Teatro Imperiale, 10 novembre 1862), consegnando infine ai posteri con Aida (Il Cairo, Teatro dell’Opera, 24 dicembre 1871) il suo più riuscito tentativo nel genere.
Per lungo tempo Aida rimane l’ultima opera di Verdi, e il musicista appare invecchiato, incapace di far fronte all’arrivo del dramma wagneriano.
Proprio dall’incontro con uno dei suoi contestatori, il musicista e letterato “scapigliato” Arrigo Boito, nascono i due capolavori della vecchiaia verdiana, Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) e Falstaff (Milano, Scala, 9 febbraio 1893), entrambi tratti da Shakespeare.
Boito abbandona per una volta le sue velleità rivoluzionarie e si adatta a fare da librettista, conferendo alle due opere un linguaggio particolarissimo, molto più ricercato di quello della media dei libretti. Entrambe le opere guardano principalmente al modello del dramma parlato; la distinzione tra aria e recitativo è del tutto abolita, ma la melodia affiora qua e là nel dialogo, che rappresenta il tessuto connettivo del dramma.
Otello e Falstaff segnano la fine del melodramma, nella forma conferitagli da Rossini in poi.
La vocalità verdiana
Verdi rompe infatti decisamente con la tradizione del “belcanto”: al tipo vocale corrisponde un tipo psicologico ben preciso, e inoltre si recupera la caratterizzazione sessuale delle voci; al centro dell’opera non sta più la bellezza del canto ma le esigenze del dramma e le voci non devono più essere belle, ma adatte al personaggio.
Verdi raccoglie da Donizetti la netta differenziazione delle voci maschili tra basso, baritono e tenore. Il tenore raffigura sempre la giovinezza, la bellezza, l’amore,
La grande novità è comunque la voce baritonale, ormai chiaramente distinta da quella del basso, che viene confinata in ruoli gravi di sovrani o sacerdoti, e comunque associata all’idea dell’autorità.
Il capovolgimento più vistoso dello schema avviene in Rigoletto dove il “cattivo” è il tenore, che pure presenta le caratteristiche di giovinezza e di passionalità, tipiche della sua voce, e dove invece il baritono assume una valenza ambigua, riscattandosi da una iniziale perfidia tramite la forza dell’amor paterno.
Per quel che riguarda le voci femminili, il contralto – prediletto da Rossini – sparisce quasi del tutto, e la voce femminile per eccellenza diventa quella sopranile. Il soprano verdiano è quello che si definisce drammatico d’agilità, cioè conserva la capacità d’ornamentazione dei soprani belliniani, accompagnata da grande potenza sonora. Al soprano si contrappone il mezzosoprano, che talvolta raffigura la donna anziana come Azucena nel Trovatore.
L’impianto di base del melodramma resta fondamentalmente quello rossiniano in quattro tempi, che Basevi, chiama “la solita forma” e che prevede l’alternarsi di momenti statici (numeri chiusi su versi lirici) e momenti dinamici (scene recitative in versi sciolti).
Come Bellini ma comunque in maniera maggiore, Verdi sceglie e impone il soggetto dell’opera. Nelle sue scelte letterarie spiccano i nomi di Schiller, Hugo e Shakespeare;
Una volta alle prese con il dramma originale, Verdi ne individua i nuclei drammatici, che chiama “punti” o “posizioni” e crea intorno a essi i brani musicali. La capacità drammaturgica di Verdi è impressionante; ha quasi sempre chiaro come ridurre il testo originale a libretto, cercando di conferire al tutto un’impronta unitaria, la cosiddetta “tinta”. Talvolta, insoddisfatto della stesura del librettista, propone versioni alternative e abbozza anche i versi.
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