martedì 5 settembre 2017

La storia dell'opera lirica (parte seconda)

Il XIX secolo: l'opera in Italia

Lento fu in Italia il superamento dell'opera settecentesca: di fatto compositori come Cherubini e Spontini si ridussero a operare all'estero portando avanti la linea di rinnovamento gluckiana. Tra le varie istanze di rinnovamento che si delinearono in Italia all'inizio dell'Ottocento vi fu quella di S. Mayr,
ma su tutte emerse l'esperienza di Rossini che dominò per alcuni decenni le scene europee. Egli conferì una nuova dimensione all'opera buffa, facendone esplodere le strutture e conducendo a un punto conclusivo la tradizione settecentesca del genere; ma operò profondi rinnovamenti anche nell'opera seria, dove, pur rimanendo fedele al “bel canto” e mantenendo alcuni aspetti legati a un gusto neoclassico e sostanzialmente conservatore, preannunciò chiaramente il melodramma romantico; e con le ultime opere francesi (Guillaume Tell, 1829) approdò infine al grand-opéra. Un'ultima singolarissima incarnazione del “bel canto” si ebbe nel romanticismo di Bellini e nella sua ricerca di continuità drammatica che giunse con Norma (1831) all'esito più compiuto. Se Donizetti, e in minor misura Mercadante, segnano il momento della compiuta assimilazione dei temi del romanticismo europeo, con Verdi si tocca il vertice drammaturgico-musicale dell'Ottocento italiano. Egli diede voce agli ideali risorgimentali nel momento della loro crescita e affermazione in una prospettiva chiaramente popolare. E alla fine della sua lunga evoluzione, venute meno le basi spirituali del suo mondo nella trasformata società italiana, seppe cogliere con vigile attenzione la nuova situazione. Alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento si ebbero poi il dignitoso epigonismo di Ponchielli, le velleità innovatrici di A. Boito, le inquietudini e le generiche istanze di rinnovamento di Catalani e la “giovane scuola”, dei “veristi” Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea, che guardarono essenzialmente a modelli francesi dando voce schietta ai limiti provinciali della cultura musicale italiana del tempo. L'interprete più intelligente e aggiornato degli ideali della borghesia italiana, a cavallo tra i sec. XIX e XX, fu Puccini.

Il XIX secolo: l'opera in Francia

In Francia Cherubini, ricollegandosi a ideali gluckiani, perseguì una nuova dimensione drammatica (specie in Medea, 1797) ; in età napoleonica si affermò l'opera di Spontini, in cui il gusto aulico e magniloquente si unisce ad aspetti già propriamente romantici. Dal 1830 ca. prevalse il gusto del grand-opéra, che trovò il suo più significativo rappresentante in Meyerbeer e nel suo eclettismo. Isolati restarono i capolavori teatrali di Berlioz, mentre una vena di rinnovata freschezza animava l'Opéra-Comique con Boïeldieu, Auber, Adam, Isouard. Dopo la metà del sec. XIX il superamento del grand-opéra e della sua retorica spettacolare nella dimensione più raccolta e borghese dell'opéra-lyrique fu realizzato da Gounod e proseguito con esiti di compiuta autenticità da Massenet. La voga del gusto esotico di certe opere di Delibes, Saint-Saëns, Lalo e dello stesso Massenet trovò ben altra incarnazione nella Carmen (1875) di Bizet, la cui violenza drammatica e nettezza di segno rivelano un'eccezionale carica innovatrice.

Il XIX secolo: l'opera in Germania

In Germania la nuova opera nazionale romantica poté porre le proprie radici nel Singspiel e nei capolavori che Mozart col Flauto magico (1791) e Beethoven col Fidelio avevano creato servendosi di questo genere. A definire l'opera romantica tedesca e il clima magico-fantastico e popolare che essa prediligeva furono innanzitutto i capolavori di Weber, a iniziare dal Franco cacciatore (1821). Accanto a lui bisogna ricordare E.T.A. Hoffmann, Spohr, Marschner e Schumann, mentre nell'opera comica emersero Lortzing e O. Nicolai; alle generazioni successive appartennero le esperienze teatrali di Cornelius, Humperdinck e Wolf nella seconda metà del secolo. Alla tradizione dell'opera romantica si riallacciò, per trarne ben diverse conseguenze, R. Wagner, che ne riprese tra l'altro l'intensa esigenza di unità drammatica e il rilievo assunto dall'orchestra per farne un uso più radicale alla luce di una rivoluzionaria visione della musica e del dramma musicale che andò progressivamente definendosi da Lohengrin (1846-48) all'Anello del Nibelungo (1853-74) . Alla tecnica del Wort-Ton-Drama wagneriano si rifece R. Strauss volgendola a temi poetici e a esiti profondamente diversi, intimamente legati alla situazione della Germania guglielmina.

Il XIX secolo: l'opera in Russia e nei Paesi slavi

Dominata fino ai primi decenni dell'Ottocento dal teatro musicale italiano e francese, la Russia vide nascere una propria opera nazionale con Una vita per lo zar (1836) di Glinka. Al suo esempio si ricollegarono idealmente Dargomyzskij e il Gruppo dei cinque, che mossero alla ricerca di un linguaggio rinnovato attraverso l'assimilazione del canto popolare russo, puntando inoltre su soggetti di carattere nazionale e sul superamento delle forme del melodramma tradizionale. Gli esiti più alti si ebbero in Musorgskij, rivoluzionario nell'impostazione del declamato, costantemente alla ricerca di un realismo adeguato alla non convenzionalità dei suoi temi politici; in Borodin e in Rimskij-Korsakov, incline a favolistiche evocazioni di mirabile intensità e varietà coloristica. Non può essere catalogato esclusivamente come atteggiamento mutuato dalla tradizione occidentale il malinconico lirismo di Cajkovskij; mentre all'Europa guardarono decisamente conservatori quali Rubinstein e Serov. § Tra gli altri Paesi slavi si distinse in particolare la Cecoslovacchia, dove l'opera nazionale venne a interpretare istanze di indipendenza. Essa toccò i primi grandi esiti con Smetana, cui seguirono Dvorák e infine Janácek, la cui problematica si inserisce nella storia dell'opera del Novecento.

Il XX secolo

Nel sec. XX non è più possibile parlare di scuole e tradizioni operistiche nelle quali si riflettano organicamente atteggiamenti morali, esigenze e ideali di un pubblico. Di conseguenza l'opera è un problema cui ciascuno dà caso per caso una risposta individuale, per lo più irripetibile. Ciò non significa che dopo Pelléas et Melisandedi Debussy, che per molti aspetti è la prima opera del Novecento, non si siano più prodotti capolavori: il teatro musicale di Berg Schönberg e, in altra direzione, quello di Stravinskij annoverano esiti altissimi; né si possono ignorare le opere di Sostakovic, Prokofev, Ravel, Hindemith, Weill, G. F. Malipiero, di certo Britten, ma tutte recano il segno di un'impostazione personalissima e problematica. Altrettanto si può dire per Dallapiccola e Petrassi, e a maggior ragione per le esperienze del dopoguerra, in complesso tese a recuperare una dimensione teatrale al di fuori dell'opera propriamente detta (cui pure si sono rivolti con intenti diversi Berio, Nono, Bussotti, Manzoni, Pousseur). È solo a partire dagli anni Ottanta che si è manifestata la tendenza al ritorno verso l'opera in senso tradizionale, tendenza alla quale si sono mostrati interessati, soprattutto in Italia, tutti i principali esponenti delle ultime generazioni.

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