Nato da una famiglia di musicisti, Giacomo Puccini (Lucca 1858 - Bruxelles 1924) sarebbe stato destinato a seguire le orme del padre Michele in una modesta carriera di musicista locale, dedita soprattutto alla composizione di musica sacra, di opere di circostanza e all'insegnamento presso l'istituto musicale e a privati, se la forte passione per il teatro, rivelatagli da una rappresentazione dell'Aida di G. Verdi, a cui assistette nel 1876, non lo avesse decisamente spinto verso scelte di vita e verso una carriera completamente diverse. Superando notevoli difficoltà economiche, Puccini si trasferì nel 1880 a Milano, dove per tre anni studiò al conservatorio sotto la guida di A. Bazzini e A. Ponchielli. La composizione del Capriccio sinfonico, insieme con la prima opera di Puccini, Le Villi (su libretto di F. Fontana), valse a segnalare il compositore all'attenzione del mondo culturale dell'epoca e, in particolare, all'editore G. Ricordi, che da quel momento lo legò alle sorti della propria casa di edizioni musicali.
Mentre la vita sentimentale di Puccini (che fu sempre segnata da un'insoddisfatta inquietudine e da un non mai superato fondo d'amarezza) subiva una brusca svolta per la relazione, regolarizzata dal matrimonio solo nel 1904, con Elvira Bonturi, la definizione del suo stile procedeva nella lenta realizzazione di Edgar, rappresentata al Teatro alla Scala nel 1889.La maturità
Dopo l'esito incerto dell'Edgar, dovevano passare altri quattro anni prima che Manon Lescaut, messa in scena al Teatro Regio di Torino nel 1893, imponesse autorevolmente l'autore all'attenzione europea e non solo per il confronto prestigioso con l'opera omonima di J. Massenet, ma per la soluzione, singolarmente audace, di realizzare concretamente, in una misura stilistica segnata da una rilevata originalità, una sintesi fra le esperienze del melodramma verdiano, le conquiste della scuola francese e gli ideali del dramma musicale wagneriano.
Con La Bohème (Torino, 1896) queste acquisizioni diventano più complesse, nella scelta di un taglio drammatico che rifiuta i consueti schemi narrativi in favore di un'impressionistica immediatezza del taglio scenico. Questa impostazione restituisce in tutta la sua acerba fragilità la tragica caducità del quotidiano, facendo della vicenda una commossa elegia sulla fine della giovinezza.
L'intimismo pucciniano conosce con l'opera successiva, la popolarissima Tosca (Roma, 1900), impacciata nello schema di un plateale dramma storico, qualche cedimento a toni compiaciutamente morbosi e crudeli, che costituiscono comunque le parti migliori di un'invenzione scopertamente indulgente a corrive concessioni alla poetica verista, sostanzialmente estranea al Puccini maggiore.
Con Madama Butterfly (Milano, 1904) il suo sforzo di fornire, attraverso l'esotismo, uno studio analitico, mirabile per precisione e profondità, dell'animo piccolo-borghese italiano tocca il suo momento più felice.
L'ultima fase di Puccini dalla Fanciulla del West (New York, 1910) sino a Turandot (postuma, Milano, 1926), il lavoro estremo interrotto dalla morte e completato da F. Alfano, si articola attraverso le disuguali esperienze della Rondine (Montecarlo, 1917), sfortunata incursione nell'ambito dell'operetta, e del "trittico" (Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, New York, 1918), mirabile studio di caratteri e di atmosfere. Le ultime opere si segnalano per un sempre più deciso approfondimento delle ragioni native della poetica pucciniana, in un attivo confronto con le più avanzate esperienze internazionali.
La struttura delle partiture
Abbandonate le “forme musicali chiuse” già dall’ultimo Verdi, le nuove partiture inseguono una concisione e una discorsività che si avvicinano ai dialoghi del teatro parlato: per Puccini si parlerà a buon diritto di “opera di conversazione”, indicando con ciò la scioltezza d’intere scene come quella in Bohème . Certo, il pezzo assolo continuerà a sussistere, ma si tratterà il più delle volte di una sorta di monologo (modellato anch’esso sul monologo del grande attore), piuttosto che di una effusione lirica fuori dal tempo, com’era lo squarcio psicologico dell’aria romantica, del tutto irrealistica: ed ecco il “Te Deum” , il “Vissi d’arte” e il "E lucevan le stelle" di Tosca, l’“Improvviso” di Andrea Chénier, nonché tanti brani utilizzati con funzione di autopresentazione (“Mi chiamano Mimì, | ma il mio nome è Lucia” in Bohème, “Io son l’umile ancella | del genio creatore” in Adriana Lecouvreur).
L’arcata melodica rimane comunque perlopiù caratterizzata da campate brevi, magari fulminanti e come tali memorabili, ma sganciate dalle rigide squadrature che avevano dominato nelle epoche precedenti: e sono espansioni liriche frammentarie, fluttuanti, spesso destinate a rimanere “aperte”, sono momenti melodici ed emotivi fugaci quanto inattesi, che possono arrivare a rasentare il grido. A dare il senso di continuità alla narrazione musicale è allora più spesso l’orchestra, densa sul modello wagneriano, timbricamente suadente a imitazione delle esperienze francesi, attivissima nel doppio compito di raddoppiare la voce con funzione enfatica (perorazione divenuta celeberrima, il “Vincerò!” di Turandot) o di sostenerne frasi frammentarie, scarne, ridotte talvolta a un semplice “martellato” (l’avvio di “E lucean le stelle” in Tosca, di “Che gelida manina” in Bohème), che si susseguono irregolarmente sull’onda del dramma: gran parte della Fanciulla del West è di fatto costruita come una colonna sonora strumentale a dialoghi sempre più modellati sul parlato.
Un certo senso di unitarietà proviene anche dalla riformulazione del concetto di Leitmotiv, che perde la marca rigorosamente simbolica attribuitagli da Wagner, per divenire con Puccini una sorta di tinta distintiva della singola opera: disinteressato al tema che rimanda inequivocabilmente a quel personaggio o a quel concetto, il gioco delle melodie assume piuttosto una funzione emotiva, d’orientamento affettivo (già dal primo ascolto lo spettatore, ripetutamente avvolto da temi presto memorizzati, si sente così compartecipe del dramma).
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